Infra-ordinario #2

28.10.2006. Strano e irreale, il suono di strumenti musicali arriva nitido e forte (come attraverso le pareti, ma in realtà dalle finestre) nella sacrestia di San Giacomo Maggiore a Bologna, e si mescola – ancor più bizzarramente perché i musicisti dell’attiguo conservatorio stanno provando un brano di musica contemporanea – alle figure bizantineggianti del polittico di Paolo Veneziano (al San Pietro, al San Paolo, al San Giovanni Evangelista, al San Giorgio che uccide il drago…).

Infra-ordinario #1

Aprile 2006. Monteverde Vecchio, Via Giuseppe Parini. Di fronte ai numeri 18, 22 e 26, sul lato sud della via, c’è un terrain vague, una zona vuota, un’area non edificata in cui cresce rigogliosamente l’acanto spinoso e ci sono alcuni alberi. L’area è delimitata dalla strada, dal recinto della chiesa dei primi anni Quaranta che affaccia sull’inizio di Circonvallazione Gianicolense, e dal perimetro esterno delle palazzine che affacciano sull’ultimo tratto di Via Parini e su Viale Trastevere.

Nella parte più lontana dalla strada, in mezzo ad alti cespugli di acanto, s’intravvede la tettoia di qualcosa che non è nemmeno una baracca, ma un semplice riparo; un uomo dorme, il volto in pieno sole, supino. Al margine dell’area, dove la terra cede il posto ai sampietrini e all’asfalto, emerge, accanto alle radici di uno degli alberi, un banco di tufo verdastro: il ‘monte verde’ che dà nome al quartiere.

Meno che un ricordo d’infanzia

Lorenteggio, Milano, 1961

22.7.2009. Sesto San Giovanni, cos’è questo nome? Non è nemmeno un ricordo, è una sensazione che con fatica, quasi con sforzo fisico cerco di collocare, di richiamare alla mente in una forma in qualche modo tangibile.

C’era un ponte? Un ponte separava Sesto San Giovanni da Milano? Chi lo sa. Quattro decenni dopo che si è andati via da una città, come si fa a esser certi di una cosa simile, posto che allora avevo poco più che dieci anni, e dunque non potevo andare per la città da solo, e men che mai raggiungere un luogo molto lontano, a nord della città, ‘su’, dove forse non si è mai stati nemmeno di passaggio. Così quel ponte fantasmatico, senza forma, senza immagine, viene vestito di forme familiari, più vicine nel tempo, ad esempio il ponte sopra la ferrovia presso la stazione di Bologna, o il lunghissimo ponte che scavalca la Neva a San Pietroburgo.

Allora: un ponte separava, forse, Milano da Sesto San Giovanni. Colori? Grigio del cielo invernale, fuliggine industriale, smog. Era un luogo di operai, di gente non abbiente – un luogo da cui la mentalità piccolo borghese di mia madre istintivamente e quasi visceralmente rifuggiva. Era un posto in cui non era interessante andare; forse anche un po’ minaccioso, oltre che brutto, ovvero grigio, anonimo, ‘moderno’ ma non ‘nuovo’, fatto di spazi organizzati geometricamente, ma non abbelliti in modo da rassicurare coloro che volevano ricevere la sensazione che un quartiere li accompagnasse verso l’ascesa nella scala sociale. Ascesa modesta, ma che poneva comunque al di sopra, e al di fuori, delle zone delle case ‘popolari’ e delle fabbriche.

A ovest della zona dove abitavamo, poco distante dal Lorenteggio, c’erano «le case minime», case di edilizia popolare, blocchetti uguali tra loro, di pochi piani, senza nessun abbellimento: ebbene, «le case minime» erano un posto verso cui non si doveva andare, da cui ci si doveva guardare. Ricevevo queste pillole di istruzione sociologica senza aver il dono di un’altra e diversa opinione, e ne traevo una sensazione di inquietudine, pungente proprio perché non basata su argomenti precisi.

[Post scriptum – 24.8.2009. C’era un ponte, e c’è ancora, che divide Milano da Sesto San Giovanni. È il Cavalcavia Bruno Buozzi. L’ho cercato e trovato con Google Maps, e poi ho ingrandito l’immagine fino alla veduta panoramica; fino a trovarmi di nuovo, sia pure immaterialmente, su quel cavalcavia.]